La socialdemocrazia tedesca e l’avvento del nazismo

Rudolf Rocker nasce a Magonza, in Germania, nel 1873. Si avvicina al partito socialdemocrato tedesco (SPD), ma dopo esserne stato cacciato con la corrente dei giovani, si avvicina all’anarchismo. Costretto dalla repressione antianarchica a peregrinare da uno stato all’altro, nel 1907 fa parte del Bureau nominato dal Congresso internazionale anarchico di Amsterdam.

Allo scoppio della prima guerra mondiale si schiera con gli antimilitaristi e i disfattisti. Internato dapprima in Inghilterra, nel marzo 1918 raggiunge l’Olanda e nel novembre rientra in Germania, a Berlino.

Nella capitale tedesca si impegna nell’attività sindacale, contribuendo alla nascita della FAUD (Freie Arbeiter Union Deutschlands) e partecipando, sempre a Berlino, alla ricostituzione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIT).

Oppostosi con decisione all’ascesa del nazismo, con la presa del potere da parte di Adolf Hitler parte in esilio volontario per gli Stati Uniti. Dopo un’intensa attività a sostegno della rivoluzione spagnola, allo scoppio della seconda guerra mondiale, Rocker si schiera a sostegno degli Alleati.

Dopo una breve esperienza in Grmania dopo la fine della guerra, farà ritorno negli Stati Uniti dove morirà nel 1958.

Il brano che segue è tratto da “Contro la corrente” raccolta di scritti a cura di David Bernardini e Devis Colombo.

***

Gli avvenimenti in Germania appaiono a molti quasi incomprensibili. Solo pochi riescono a comprendere il carattere e le vere cause della cosiddetta «Rivoluzione nazionale». Soprattutto stupisce come una nazione che disponeva della più grande organizzazione operaia del mondo, di un movimento che vantava una lunga tradizione, senza alcuna resistenza si sia fatta cogliere di sorpresa e mettere in ginocchio, senza un minimo tentativo di tener testa al minaccioso pericolo.

In verità, la vittoria del fascismo tedesco non è stata affatto una sorpresa, bensì il logico risultato di un lungo percorso, favorito e incrementato da varie cause.

Fin dai tempi della Prima Internazionale, in seno al movimento operaio europeo si è realizzata una svolta radicale che ha avuto effetti simili nella maggior parte dei paesi. Al posto dei gruppi che professavano idee socialiste e delle organizzazioni di lotta di tipo economico, nei quali la parte avanzata dei vecchi internazionalisti vedeva le cellule della società futura e i naturali organi per la trasformazione in senso socialista dell’economia, subentrarono i moderni partiti operai e la conseguente collaborazione parlamentare all’interno dello Stato borghese. La vecchia educazione socialista, che parlava agli operai della conquista della terra e dei mezzi di produzione industriale, venne a poco a poco dimenticata. Si cominciò allora a parlare semplicemente della conquista del potere politico, approdando così in pieno nella morta gora della società capitalistica.

Via via che i partiti operai di nuova nascita assumevano tutta la loro efficacia soprattutto nell’attività parlamentare, proponendo la conquista del potere politico come precondizione essenziale al fine di realizzare il socialismo, nel corso degli anni si andò sviluppando un’ideologia del tutto nuova, sostanzialmente diversa dalle correnti d’idee socialiste della Prima Internazionale. Il parlamentarismo, che assunse ben presto un ruolo dominante nei partiti operai della maggior parte dei paesi, attrasse nel campo socialista una folla di elementi borghesi e di intellettuali assetati di carriera grazie ai quali si registrò una maggiore spinta verso il cambiamento interno, e tutte le tendenze veramente socialiste a poco a poco vennero relegate sullo sfondo. Così si sviluppò, al posto del socialismo creativo della vecchia Internazionale, una sorta di surrogato che con quello vero aveva in comune solo il nome.

In tal modo il socialismo perse sempre più il carattere di un ideale culturale, atto a preparare mentalmente e attrezzare praticamente i popoli alla liquidazione della civiltà capitalistica, e per ciò stesso non riuscì più a porre un limite ai confini artificiosi dell’apparato statale nazionale.

In questa nuova fase del movimento i compiti dello Stato nazionale si mischiarono sempre più con quelli del partito nella mente dei dirigenti, finché questi ultimi non furono più in grado di individuarne i precisi limiti e si abituarono a vedere il socialismo nell’ottica dei cosiddetti «interessi nazionali». Divenne pertanto inevitabile che il moderno movimento operaio s’inserisse a poco a poco nelle strutture dello Stato nazionale come sua necessaria componente, ridando allo Stato stesso l’equilibrio interno che aveva appena perduto.

Sarebbe sbagliato voler giudicare questo cambiamento interno come un tradimento consapevole da parte dei dirigenti, come spesso si usa fare oggi. In verità si tratta di una lenta inclusione nell’universo mentale della società capitalistica dovuta all’attività pratica dei partiti operai odierni, la quale, per forza di cose, si è riverberata sull’atteggiamento mentale dei loro dirigenti politici. Quegli stessi partiti che un tempo si erano mossi per conquistare il potere politico sotto la bandiera del socialismo, si videro sempre più costretti, dalla logica ferrea della situazione, ad assumere una posizione che li costrinse a sacrificare, pezzo dopo pezzo, il loro socialismo alla politica nazionale dello Stato; diventarono i parafulmini nella lotta fra Lavoro e Capitale, senza che la maggioranza dei loro aderenti se ne accorgesse, parafulmini per la sicurezza dell’ordine economico capitalista. La posizione della maggior parte di questi partiti allo scoppio e durante la prima guerra mondiale dimostra come tale concezione corrisponda esattamente alla realtà.

La Germania, che non aveva conosciuto nessun’altra forma di movimento operaio ed era inoltre un paese senza tradizioni rivoluzionarie, fu il terreno in cui questo processo si svolse in modo particolarmente incisivo, riverberando poi i suoi effetti sulla maggior parte del movimento degli altri paesi. Il forte apparato organizzativo della socialdemocrazia tedesca e i suoi pretesi successi in tutte le elezioni le procurarono un prestigio maggiore di quello che meritava. Si dimenticò che si trattava solo di successi elettorali incapaci di scuotere l’ordinamento capitalistico, e quanto più i partiti fratelli all’estero scivolavano nella stessa morta gora, tanto più sovrastimavano l’influsso della socialdemocrazia e la forza della sua organizzazione.

L’attività di un agitatore come Ferdinand Lassalle aveva aperto la strada al movimento operaio tedesco e la sua influenza su di esso restò sempre ben riconoscibile. Fu lui a dare al socialismo tedesco la sua particolare impronta, che riprese particolare vigore soprattutto negli anni precedenti la prima guerra mondiale e in quelli successivi alla cosiddetta «Rivoluzione tedesca». Quando era in vita, Lassalle era un fanatico adepto dell’idea hegeliana di Stato e aveva fatta propria la concezione di Louis Blanc, il francese fautore di un socialismo di Stato. I suoi seguaci erano profondamente convinti della «missione liberatrice» dello Stato, a tal punto che la loro credenza nello Stato assumeva talvolta forme che inducevano la stampa liberale tedesca a definire il movimento di Lassalle come uno strumento di Bismarck.

Queste accuse mancavano certo di prove materiali, ma il singolare occhieggiamento amoroso di Lassalle con il «Regno sociale» bastava a renderle più che plausibili. All’estero si ha spesso la convinzione che la Germania sia stata la nazione più «marxista» del mondo, e la barbara lotta dei nuovi potenti contro il «marxismo» ha rafforzato molti in questa opinione. In realtà le cose stanno in modo del tutto diverso: il numero dei marxisti autentici era molto esiguo anche in Germania e le posizioni politiche della socialdemocrazia erano influenzate dalle idee di Lassalle più che da quelle di Marx ed Engels.

Marx aveva sì dichiarato che la presa del potere politico era la prima premessa per la realizzazione del socialismo, però lui sosteneva il punto di vista per cui lo Stato, appena avesse compiuto la sua «missione» di eliminare le classi e i monopoli dalla società, dovesse scomparire per lasciar posto a una società senza governo. Questa era un’illusione che fu sconfessata completamente dall’esperienza bolscevica in Russia, perché lo Stato non solo protegge, bensì mantiene e crea monopoli, assieme al dominio di classe nella società. Comunque Marx aveva previsto la fine dello Stato, Lassalle invece era un entusiasta sostenitore dell’idea di Stato ed era disposto a sacrificargli ogni libertà personale del cittadino. Da lui hanno ereditato la loro ardente fede nello Stato i socialisti tedeschi, assieme a gran parte delle  loro tendenze liberticide. Da Marx presero solo la fede fatalistica nell’ineluttabile forza dei rapporti economici, che, come tutti i fatalismi, paralizzava la volontà e soffocava sistematicamente nelle masse ogni desiderio di una vera azione rivoluzionaria.

Se poi si considera il forte influsso che uno Stato militare e burocratico come la Prussia esercitava su tutta la vita sociale della Germania, allora si capisce che impatto potesse avere una tale «educazione delle masse». E questo si evidenziò con tragica chiarezza nel 1918 allo scoppio della Rivoluzione di Novembre in Germania. Il movimento socialista di quella nazione, grazie ai lunghi anni di routine parlamentare, si era completamente arenato e non sembrava più capace di un’azione creativa. I dirigenti più influenti del movimento e specialmente Fritz Ebert, il primo Presidente della Repubblica Tedesca, tentarono con tutti i mezzi di calmare lo spirito rivoluzionario delle masse, che si era risvegliato dopo la sconfitta bellica, e di dirigerlo verso iniziative legalitarie. Fino all’ultimo si opposero decisamente a ogni iniziativa troppo radicale e ancora alla vigilia del 9 novembre il «Vorwärts» pubblicava un articolo in cui avvertiva i pazienti lettori che il popolo tedesco non era ancora maturo per la Repubblica. Si può capire cosa poteva venir fuori da una tale «rivoluzione». Un anno esatto dopo i grandi sconvolgimenti del 1918 un giornale liberal-democratico come la «Frankfurter Zeitung» scriveva che la storia dei popoli europei finora non aveva conosciuto rivoluzioni così povere di idee creative e così prive di forza rivoluzionaria. Di fatto gli avvenimenti del novembre 1918 si possono a malapena definire una rivoluzione. Una rivoluzione nasce dall’irrefrenabile pressione di un popolo soggiogato che vuol spezzare le proprie catene per costruirsi un nuovo futuro. In Germania invece la rivoluzione venne imposta alla nazione dall’esterno. Dopo che le potenze alleate ebbero annunciato che  per loro era fuori questione sottoscrivere una pace con la dinastia Hohenzollern, il crollo del Reich e della dinastia avvenne in modo per così dire automatico, per porre fine a una guerra che per la Germania era irrimediabilmente perduta. Si obbedì all’imperativo del momento, non a un movimento interno.

Certamente in Germania c’era un gran numero di rivoluzionari sinceri e anche decisi a portare le cose fino in fondo, dando alla rivoluzione un più ampio respiro, solo che costoro rappresentavano un’infima minoranza e non erano in grado di cancellare i risultati di un’educazione durata lunghi anni, né di mettere in moto masse di milioni di operai iscritti alle organizzazioni politiche e sindacali.

Mai si è dimostrato più chiaramente come per i movimenti rivoluzionari più dell’organizzazione tecnica conti lo spirito delle masse da questa gestite. Un’organizzazione senza slancio rivoluzionario, senza un’iniziativa propria, risulta essere solo una forza fasulla che fa cilecca tutte le volte che deve affrontare una prova del fuoco. Questo era esattamente il caso della Germania. Senza una vera tradizione rivoluzionaria, la classe operaia tedesca, oltre all’attività parlamentare e alla vera e propria politica riformista dei sindacati, non conosceva altri metodi di lotta e cercava la propria salvezza solo in quelle forme conosciute. Addirittura il suffragio universale, che in Francia e in altri paesi doveva ancora essere conquistato, in Germania cadde per così dire dal cielo come regalo di Bismarck. Così la rivoluzione fallì sul nascere e non poté attivare le energie interne indispensabili al superamento totale dell’esistente.

Il presente brano è tratto dall’articolo “La via che porta al Terzo Reich”; un lungo articolo pubblicato in due puntate nel 1934 sulla rivista teorica anarcosindacalista «Die Internationale». Tratto dalla traduzione italiana pubblicata in Rudolf Rocker, “Contro la corrente”, a cura di David Bernardini e Devis Colombo – Elèuthera

Related posts